20/09/2021
Con la pandemia, lo smart working è diventato una modalità lavorativa a tutti gli effetti. Prima era vista come una semplice opportunità, con la diffusione del Coronavirus è diventato un modus operandi determinanti per fare andare avanti aziende e privati. La legge ha dovuto adeguarsi a questa modalità lavorativa, che ancora ad oggi presenta punti oscuri che vanno chiariti. Il lavoratore, in generale, non può essere obbligato ad accettare alcun accordo di lavoro agile perché l’accordo deve sempre fondarsi sul consenso di entrambe le parti.
Lavorare in parte in ufficio e in parte a casa può sembrare una grande opportunità, ma non è per tutti così; ci sono situazione e condizioni familiari che non lo consentono. Magari infatti la casa è molto piccola o non c’è una connessione adeguata e non si hanno gli spazi sufficienti per realizzare un home office, per questo diventa difficile poter accettare il lavoro da casa. La legge, in questo caso, tutela la libertà di entrambe le parti e impone un consenso condiviso. Qualsiasi azione ritorsiva o qualsiasi cambiamento di atteggiamento adottato dall’imprenditore nei confronti di un lavoratore chenon accetta lo smart working è da ritenersi illegittimo.
Smart working: cosa prevede la legge
La legge prevede che, alla base dello smart working, ci sia un accordo tra datore di lavoro e lavoratore. L’accordo di lavoro agile deve essere stipulato per iscritto e, per essere valido, deve contenere al suo interno alcuni punto fondamentali. L’accordo tra le due parti va comunicato al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali attraverso il portale Cliclavoro. Ecco cosa deve contenere il documento:
- i dati identificativi delle parti
- la durata dello smart working, che può essere a tempo determinato o indeterminato
- le modalità di svolgimento della prestazione di lavoro in modalità agile
- le modalità di comunicazione della presenza in servizio
- gli strumenti tecnologici messi a disposizione del dipendente per lavorare da remoto
- le modalità di esercizio del diritto alla disconnessione del lavoratore, anche mediante accorgimenti tecnologici (ad es. il salvaschermo che si attiva per 15 minuti ogni 120 minuti di lavoro al videoterminale, come prescritto dalla normativa in materia di sicurezza sul lavoro del videoterminalista)
- la disciplina del recesso dall’accordo
Cosa succede in caso di rifiuto dello smart working
La legge, in caso di rifiuto dello smart working, è chiara: il lavoratore non deve subire alcuna ritorsione. Lo smart working non deve essere mai imposto dal datore di lavoro e deve rimanere una scelta libera e volontaria fondata sul consenso delle parti. Proprio per questo motivo, se il datore di lavoro prova a imporre il lavoro da remoto, il lavoratore ha il diritto di rifiutarsi senza alcuna giustificazione.
In caso invece di firma dell’accordo per lo smart working, ogni lavoratore ha il diritto di recedere dall’intesa raggiunta con il datore di lavoro con un preavviso di 30 giorni oppure senza preavviso in caso di giustificato motivo di recesso. Dopo un mese quindi, può tornare a svolgere il proprio lavoro con le modalità previste dal contratto iniziale. Il rifiuto dello smart working è quindi un diritto legittimo e il datore di lavoro non ha strumenti legislativi per poterlo imporre.
(fonte immagine: Yandex.com)